Il libro che tenevo a recensire oggi è “Il serpente cosmico, il DNA e le origini della conoscenza” di Jeremy Narby, antropologo canadese che ha scritto già diverse opere sullo sciamanesimo da un punto di vista più antropologico che mistico quindi non troverai in questo libro informazioni per la pratica sciamanica quanto uno sguardo più scientifico allo sciamanesimo e soprattutto alle informazioni tramandate dai popoli con una tradizione sciamanica o animista.
Il DNA e le origini della conoscenza
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DNA, il fil rouge che ci connette a tutto ciò che è animato
Ho girato diversi anni intorno a questo libro. Mi fu consigliato durante il mio addestramento sciamanico ma per un motivo o l’altro, non mi decisi a comprarlo per un po’ e fu in realtà un cosa positiva per me perché ebbi l’opportunità di ampliare la mia pratica, il mio legame con gli Spiriti e soprattutto ricevere da loro diversi insegnamenti. Il “problema” degli insegnamenti che ricevi durante i viaggi sciamanici è che non sai mai come confutare la loro veridicità, a parte quando trovi fonti esterne a te che ne confermano la genuinità; cosa che mi è capitato con questo libro. Ecco il motivo per il quale sono felice di averlo letto soltanto ultimamente.
Bando a ciance, di cosa parla? In parole spicciole, della natura delle informazioni ricevute nello stato ampliato di coscienza e del ruolo del DNA che secondo le ricerche svolte dallo studioso, sembra fare da ponte, da mediatore o messaggero, tra la realtà ordinaria e la realtà non- ordinaria, permettendo a colui che si ritrova nello stato di trance di accedere ad una comunicazione praticamente vis-à-vis col mondo stesso dove gli Spiriti, nel libro si tratta prevalentemente degli Spiriti della natura che si trovano nel Mondo di Mezzo, hanno una reale corrispondenza nel mondo materiale.
Ecco che il DNA diventa una sorta di linguaggio universale che contiene l’alfabeto primordiale (i nucleotidi) “parlato” da ogni essere animato sul pianeta. Cosa significa tutto ciò? Che probabilmente, il DNA è il legame, il fil rouge che connette tutti gli esseri viventi nella grande ragnatela del creato permettendoci di comunicare con loro.
E se il DNA fosse un… linguaggio?
L’uomo è un primato con un genoma specifico che lo distingue dalle altre specie di animali, ma anche i vegetali hanno un genoma, un codice genetico che permette loro di riprodurre la specie. Ogni genoma è specifico alla specie e contiene informazioni codificate che fungono da “manuale di istruzioni” così da costruire cellule specifiche, specializzate in un compito, con una funzione precisa. Sappiamo tutti che qualora il DNA, o manuale, risulta danneggiato, le cellule replicate in base a quel codice genetico varieranno e rischieranno di portare alcuni danni all’organismo che è n sistema estremamente complesso che la scienza studia ancora oggi (ricordiamoci che il DNA è stato scoperto soltanto intorno agli anni 70).
Fin qui, tutto bene e lineare. Dopo la sua scoperta, il DNA ovviamente ha aperto un mondo alla comunità scientifica che ha di conseguenza studiato il bagaglio genetico di molte altre specie, e cosa ha scoperto? Che specie diverse dall’uomo condividono con lui un bagaglio genetico molto simile.
Esempio: uomo e scimpanzé condividono il 99% del bagaglio genetico. A vedere quanto il primato della giungla sia vicino al suo cugino di città, non desta più stupore ormai ma se cambiamo mondo e passiamo a qualcosa che somiglia poco all’uomo come il topo, scopriremo di avere un bagaglio genetico comune al 80% mentre col… corallo condividiamo il 60% di DNA.
→ Leggi anche : Focus, uomini e coralli uniti dal DNA
Sembra quindi che il punto che ci connette alle altre specie, che ci permette di essere uniti e distinti allo stesso punto, a tal modo da poter comunicare e rimanere allo stesso tempo diversi con caratteristiche specifiche alla propria specie sia proprio quella curiosa cosa nascosta in seno ad ognuna delle nostre cellule: il DNA.
“…gli sciamani, nelle loro visioni, portano la loro coscienza al livello molecolare e ottengono accesso alle informazioni connesse al DNA, che essi definiscono “essenze animate” o “spiriti”.”
(Jeremy Narby in Il serpente cosmico, ed Venexia, p.111)
Quando Madre Natura condivide direttamente il suo sapere
Il libro illustra grazie a ricerche effettuate in culture diverse, ai quattro angoli del pianeta, e in un arco di tempo molto ampio, le similitudini nelle rappresentazioni e significati dati a queste rappresentazioni, partendo da una visione che il ricercatore fece durante le sue ricerche presso i Quirishari nella Valle del Pichi del Rio delle Amazzoni peruviano. Fu introdotto all’Abuela, ovvero, l’Ayahuasca, una pianta Maestra conosciuta per provocare uno stato ampliato di coscienza e condividere con chi la assume molte conoscenze.
Le tribù indigene dell’Amazzonia assumono da secoli l’Ayahuasca, seguendo un addestramento lungo e restrittivo e rituali ben precisi, per conoscere meglio la natura intorno a loro a scopo anche medicamentoso; comunicando con gli Spiriti della natura, sanno quale pianta usare per quale tipologia di malattia e come.
È a questo punto che si snoda l’esperienza che darà il via all’opera dell’autore. Durante un’esperienza visionaria con la Pianta Maestra che si palesa a lui sotto le sembianze di un serpente, gli giungono informazioni importanti e sconvolgenti per lui visto il suo background accademico diametralmente opposto a quello sciamanico. È la sua ricerca di informazioni legate alle sue visioni che lo porteranno, un passo alla volta, a scoprire quanto le visioni degli sciamani e dei visionari sono legate tra di loro, rappresentando spesso le medesime storie, gli stessi simboli, gli stessi insegnamenti, anche se ci sono continenti, millenni, od oceani a separarli.
Nel suo libro, Jeremy Narby ci invita in una gioiosa danza fatta di salti dai dipinti dell’ Antico Egitto o alle rappresentazioni rupestre nelle caverne ai laboratori di biologia molecolare ed è qui, a mio avviso, tutto il fascino del libro che resta comunque accessibile alla comprensione: dimostra quanto la realtà materiale e spirituale siano diverse ma non separate, parlano entrambe delle stesse cose con un linguaggio diverso.
Esiste tuttavia un’eccezione in grado di permetterci di “parlare” sia con la realtà materiale che quella spirituale e questa sarebbe propria quel piccolo paradosso che conteniamo al centro delle nostre cellule e che è la più piccola e grande parte di noi allo stesso tempo: tenuto conto che un uomo è costituito da circa 65 mila miliardi di cellule e che ogni singola cellula contiene circa 2 metri di DNA, il DNA contenuto nel corpo umano ha una lunghezza totale di circa 130 miliardi di chilometri ovvero circa 900 volte la distanza Terra-Sole!
Personalmente trovo affascinante e profondamente poetico e ricco di significato che la parte più piccola di noi sia quella in grado di farci toccare, nemmeno così tanto simbolicamente parlando, le stelle…
La conoscenza indigena e il potere delle piante
Potrebbe fare sorridere gli scettici ma è interessante scoprire, e su questo l’autore mette doverosamente l’accento nel suo libro, quanto le case farmaceutiche siano riuscite ad accaparrarsi le conoscenze indigene oltre alle piante usate nelle loro tradizioni per ampliare il loro numero di brevetti per produrre farmaci ed integratori da vendere al mondo occidentale, senza per questo remunerare le tribù indigene. Personalmente ho apprezzato il breve “j’accuse” dell’autore in proposito, che mostra, dati alla mano, quanto le aziende abbiano derubato le popolazioni indigene in un campo che mai, a noi occidentali, verrebbe da pensare.
Insomma, l’appropriazione non si gioca soltanto sul fronte culturale ma anche su tutte le informazioni che gli Indigeni hanno raccolto in secoli di apprendimento in mezzo alla natura, grazie alla relazione con gli Spiriti della natura. Ora, a rischio di sembrare polemica, trovo alquanto ipocrita da parte della nostra cultura deridere le loro tradizioni quanto si tratta di spiritualità e trattarli di “selvaggi”, salvo poi rubare i loro rimedi e le conoscenze che derivano proprio dalle loro pratiche visionarie e, capendo la validità delle loro scoperte anche se per la nostra cultura risultano degli “analfabeti”, derubarli di tutto il loro bagaglio botanico e medicamentoso, senza rispetto né verso la loro tradizione, né verso loro in quanto non vengono nemmeno remunerati per la loro “condivisione” spesso forzata.
“Il DNA è la fonte della loro straordinaria conoscenza botanica e medica, alla quale si può arrivare solamente mediante stati di coscienza defocalizzati e “non razionali”, anche se i risultati si possono poi verificare empiricamente. I miti di queste culture sono piene di raffigurazioni biologiche.”
(Jeremy Narby in Il serpente cosmico, ed Venexia, p.111)
Cosa penso di questo libro…
Ho apprezzato molto questo libro che mantiene un taglio divulgativo e non troppo specialistico, aprendo così questo tema ad una platea maggiore di persone. Il linguaggio è scorrevole anche se i temi affrontati sono profondi. È un libro da leggere con un doppio sguardo: uno sul libro e uno sulle note che riempiono una sessantina di pagine e spingono il lettore a non fermarsi a quanto scritto dall’autore bensì a fare ricerche, e per me questo è un punto fondamentale: il libro che ti apre ad ulteriori riflessioni è stato scritto con un intento genuino di ricerca della verità.
L’autore fornisce certo informazioni preziose ma dà anche molti spunti di riflessione interessanti soprattutto per i praticanti sciamanici a mio avviso, in modo da intendere la propria pratica da un’altra prospettiva. Avrai perciò sicuramente intuito la mia opinione su questo libro. Finora non credo di essermi dilungata così tanto in una recensione ma questa lettura mi ha così entusiasmata che non potevo spenderci 2 parole e chiuderla qui.
Ci sarebbero ancora moltissime cose da dire sia sulle implicazioni che queste informazioni possono avere per il mondo scientifico che per quello sciamanico ma non voglio toglierti lo stupore che potresti provare leggendoti questo libro quindi… Buona lettura!
Il DNA e le origini della conoscenza
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