Ho deciso di scrivere questo articolo, ampliando un tema che avevo già affrontato in un articolo pubblicato su Eticamente.net perché in queste settimane di grande cambiamento per tutti noi, ho notato una curiosa tendenza a concentrarsi esclusivamente sul provare vibrazioni dette “alte” senza prendere in considerazione il proprio reale sentire.
Le emozioni che provi non fanno di te una “brutta” persona
Alcune persone impegnate nella spiritualità consigliano di concentrarsi esclusivamente sull’innalzamento delle vibrazioni senza, allo stesso tempo, aiutare o permettere alle persone di poter accogliere le loro emozioni, come tristezza, rabbia, inquietudine e via dicendo.
È del tutto naturale provare questo tipo di emozioni, sopratutto in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo ora. Siamo confrontati ad una situazione nuova, inaspettata, che ci spinge a vivere alla giornata perché non sappiamo di cosa sarà fatto domani ed è normale sentirsi smarriti, frustrati. E la mancanza di contatto umano non aiuta di certo. Ignorare, rinnegare queste emozioni, può purtroppo fare più male che bene.
Ora, più che mai, abbiamo bisogno di metterci in ascolto del nostro sentire e di uscire dal pensiero giudicante, in primis verso di noi e verso le nostre emozioni. Possiamo stare nel presente ed accoglierci così come siamo, senza la necessità di dover dimostrare nulla a nessuno.
Il pensiero secondo il quale è sbagliato provare emozioni definite “pesanti” può farci sentire inadeguati e sbagliati, può farci sentire sbagliati come persone. Ma in un momento come questo, queste emozioni sono all’ordine del giorno, ed è importante capire che non è sbagliato provarle, anzi. È semplicemente umano.
È naturale provare emozioni di questo tipo.
Le emozioni sono messaggere
Dopotutto, le emozioni sono messaggere e come tali servono ad aiutarci a comprendere cosa si muove nel nostro profondo, cosa ci disturba, ecc. Le emozioni (tutte) hanno una funzione. Ci servono. Ci servono a capirci di più, a conoscerci, ad approcciarci ai motti della nostra interiorità. Ignorare le nostre emozioni o peggio ancora giudicarle e rinnegarle può essere profondamente disfunzionale.
E nel mio piccolo (e per quanto mi è stato dato sapere e sperimentare in tutti questi anni) volevo rispondere a questa tendenza che rischia di provocare un brutto “colpo di ritorno”, perché si tratta di una strategia già usata in passato, a diversa scala, che si è già dimostrata poco funzionale perché non aiuta le persone a riconoscere le proprie emozioni e/o ferite, ma serve esclusivamente a bypassare il problema ignorandolo, ignorando il proprio dolore, le proprie emozioni e i propri lati bui.
Il bypass spirituale e l’oppio dei ricercatori: il pericolo della cauda pavonis
Spesso si pensa che il lavoro interiore e spirituale sia una via facile, senza sforzo, senza difficoltà, che ci porterà ad un’immagine elevata di noi. Tutto si riveste di un alone magico e benevolo, ci si affida ciecamente ad un modo di pensare che lenisce quelle ferite sorde che non siamo riusciti a curare e per un po’ funziona. In apparenza almeno.
L’illusione dell’immagine che non riflette il mondo
Tutto è energia, tutto è amore e magia, salvo poi rendersi conto che la quotidianità spesso stride con l’idea che ci facciamo del mondo “spirituale”. Allora è il mondo che è sbagliato, che è pieno di vibrazioni “basse” e che ha bisogno di luce, di più luce, sempre più luce. Fino al momento in cui tutta quella luce che si cercava di raggiungere finisce per accecarci e piombarci nel buio più totale, lì dove non possiamo scappare da tutto ciò che abbiamo fatto finta di non vedere prima.
Questa tendenza a cercare nella spiritualità una scappatoia ai problemi che s’incontrano nella quotidianità si chiama bypass spirituale, termine coniato negli anni ’80 da John Welwood, uno psicoterapeuta e insegnante buddhista, ma le cui dinamiche sono conosciute da quando l’essere umano ha inventato le religioni.
Il bypass spirituale è la religione intesa come oppio dei popoli: è ciò che spinge l’essere umano ad usare il pensiero religioso per anestetizzarsi dal dolore del mondo, lo usa per sballarsi, per crearsi una realtà parallela diversa da questa e nella quale rifugiarsi per toccare con la punta delle dita una realtà senza dolore, senza fatica, che lo strappi alla sua condizione umana di perenne imperfezione; fantastica su paradisi lontani, si innamora di essere celestiali, si convince che quella realtà immaginata sia l’unica vera ed autentica e finisce per denigrare il mondo in cui vive, per denigrare gli altri, giudicarli, ecc.
Rinnegando la materia, si finisce per perdere il senno della ragione
Nella tradizione alchemica, questa fase della ricerca spirituale, si chiama cauda pavonis, la coda di pavone: al ricercatore spirituale si affaccia un mondo di colori e sensazioni di una profonda bellezza nel quale rischia di perdersi. Questa fase dovrebbe essere transitoria e portare a continuare il percorso verso la pietra dei saggi (la materia consacrata) ma spesso ci si ferma davanti alla voluttà di queste dolci visioni che seducono la mente e l’ego e fanno credere di aver raggiunto l’apice della ricerca, ma si tratta di un tranello.
Il fulcro del lavoro spirituale non è scappare dal mondo fluttuando beatamente nei regni dell’immaginario e rispondendo ai problemi posti dalla materia, dal corpo, dalle emozioni, dalle relazioni vere, con l’indifferenza perché ritenuti “bassi” o vili. Ignorare i propri problemi appoggiandosi ad un credo che svilisce ciò che accade in questo “basso” mondo, per giustificarsi nel non guardare in faccia la propria vulnerabilità, è un maldestro tentativo di ingannare se stessi.
L’ego potrà salvarsi la faccia ma solo per un po’, perché con la vita non si può mettere la polvere sotto al tappetto a lungo. Presto o tardi i problemi diventeranno talmente palesi (e dolorosi) da non poter più essere ignorati. Arrivati a questo punto, penseremo che la via spirituale è ingannevole, che non c’è nulla di vero in tutte quelle belle teorie, ma in realtà sarà stato l’uso che ne avremo fatto ad essere stato sbagliato: come in ogni cosa d’altronde è l’uso che si fa degli strumenti, e non la natura dello strumento in sé, ad essere funzionale o meno. E questo è proprio ciò che è la via spirituale: uno strumento (e non un dogma) per aiutarci a manifestare la nostra umanità in modo da vivere bene, sia al livello individuale che collettivo e non di certo a denigrare o giudicare gli altri e sentirsi superiori a loro.
E se c’è una cosa che non si ammette spesso quando si parla di lavoro interiore è che, nella pratica, riguarda più lo sporcarsi le mani di fango che peregrinare nel mondo tutto vestito di bianco.
“Non si diventa illuminati immaginando figure di luce, ma divenendo coscienti del buio.”
(Carl G. Jung)
Accogliere gli opposti dentro di sé, con consapevolezza e gentilezza
Quando si decide di fare un serio lavoro su di sé, passata l’euforia degli inizi dove tutto sembra nuovo e meraviglioso, arriva il momento dove ci si ritrova a dover scavare in profondità per portare in superficie tutta quella serie di cose che, in tempi normali, non si vorrebbe vedere. Anzi, di solito si ha ben cura di lasciarle nascoste e ben sepolte lì dove sono; non sia mai che qualcuno se ne accorga, o peggio, che ci rendiamo conto di non essere la persona che credevamo.
Il lavoro spirituale serve ad entrare più in profondità nella materia, a rendere concreta e manifesta la conoscenza appresa/esperita ma questo può avverarsi soltanto se il mezzo tra Spirito e Materia, che siamo, riesce ad avere un legame concreto sia con il mondo spirituale che materiale nello stesso tempo, riuscendo ad avere con entrambi una relazione equilibrata, una reale connessione.
Se con l’alto e il luminoso (e dico alto per convenzione, per capirci meglio) è più facile relazionarsi perché ci rimanda un’immagine sublimata di noi, col basso e l’oscuro, è molto più difficile perché ci confronta con la nostra realtà concreta, con i nostri lati bui, grezzi. Ma siamo esseri umani, fatti di Luce ed Ombra e come possiamo pretendere di conoscerci se rifiutiamo una parte di noi?
Ecco che il percorso spirituale può aiutarci a rompere l’immagine, l’ideale, e calarci meglio nel mondo, nella materia per comprendere ciò che può essere vero e concreto. È qui che la teoria può diventare pratica.
E qui, giunge il momento tanto temuto: l’incontro con l’Ombra, il nostro drago interiore, custode delle nostre paure e di tutti quei lati oscuri della nostra personalità, ma anche del nostro tesoro interiore più prezioso: quello che, secondo un’antica leggenda induista, sarebbe rimasto nascosto all’essere umano fino al tempo in cui avrebbe capito dove cercare.
Per potersi meritare di avere accesso al nostro tesoro interiore e usarlo nel mondo, bisognerà dimostrare il proprio valore, dimostrare di avere coraggio, di aver maturato l’esperienza e la saggezza interiore per poter affrontare il nostro Maestro-avversario ed essere abbastanza maturo, equilibrato e consapevole da riuscire ad aprire gli occhi su noi stessi senza giudizio né la tentazione di sentirsi “arrivati”, ma semplicemente riconoscendo la propria umanità.
Il nostro drago è una parte antica di noi che svolge il compito di guardiano, di custode.
Una vecchia leggenda svela il segreto del tuo tesoro interiore
Quando ci si avventura dentro il proprio mondo interiore, ci si confronta col linguaggio dell’inconscio, fatto di simboli ed archetipi. Per questo motivo, non è raro imbattersi nei vecchi racconti e leggende che veicolano un sapere profondo e prezioso anche se attraverso parole semplici: usano un linguaggio codificato che apre a diversi livelli di lettura. Non sono mai semplici storie…
Ecco un’antica leggenda induista che ti aiuterà a capire cos’è quella cosa che cerchi e alla quale non riesci a dare un nome…
“C’era un tempo in cui gli uomini erano simili agli dei, ma abusarono talmente del proprio potere che Brahma, il Dio supremo, decise di privarli della potenza divina nascondendola in un luogo a loro inaccessibile. Pensò di consultare gli altri dei per risolvere il problema. Alcuni degli dei riuniti a consiglio dissero “Nasconderemo la divinità dell’uomo nelle profondità della terra”. Brahma rispose “Non è sufficiente, l’uomo scaverà e la troverà” gli dei dissero allora “Nasconderemo la divinità dell’uomo negli abissi oceanici”. Brahma rispose ancora “Non basta, l’uomo esplorerà le profondità marine e riuscirà a riportarla in superficie”, allora gli dei “la nasconderemo sulla montagna più alta, quasi al limite del cielo, dove l’uomo non potrà arrivare” Brahma rispose ancora: ‘Non basta, l’uomo scalerà le montagne più alte e se ne impadronirà’. Allora gli dei conclusero: ‘Non sappiamo dove nascondere la divinità dell’uomo, non c’è posto sulla terra, nel mare o nel cielo che egli non possa raggiungere.’
Finalmente Brahma senti di aver raggiunto la soluzione al problema e disse: ‘La nasconderemo profondamente dentro all’uomo stesso, abiterà proprio nel suo cuore: è l’unico posto in cui l’uomo non guarderà’.”
E se l’Ombra fosse diversa da quello che pensiamo?
Un tale tesoro ovviamente va difeso perché il potenziale che può dare alla persona che lo conquista non è privo di responsabilità ed è proprio dentro di noi che troveremo il nostro lato Ombra che non
è altro che il Guardiano di questa parte di noi così potente. È lui, il drago, l’Avversario, il Maestro nella sfida, ma anche se ci ostacolerà in tutti i modi nella nostra ricerca del Sé (che sia questo il tesoro protetto?), rimane una parte di noi, una parte importante.
Se cercheremo di ferire il Guardiano, feriremo noi stessi; se cercheremo di ignorarlo, ignoreremo una parte fondamentale del nostro essere, ma allora come potremmo vincere questa battaglia contro la nostra Ombra sapendo che qualsiasi cosa faremo contro di lei, sarà a noi che lo faremo?
Occorrerà accogliere l’Ombra, riconoscerla, riconoscere il suo bagaglio e imparare a comunicare con lei. È l’ignoranza che ce la fa temere, è il fatto che nessuno ci abbia mai insegnato come rapportarci con questa parte così potente di noi che ci ha a lungo tenuto lontano da essa. E se scoprissimo che questa parte che avevamo temuto così a lungo non è poi così malvagia? E se scoprissimo che può aiutarci, che può mettere a nostra disposizione la sua grande energia, come fa un cavallo al galoppo che permette al suo cavaliere di percorrere il mondo?
Vincere senza la necessità di lottare
Il confronto con il nostro lato Ombra è un momento prezioso perché segna un momento di passaggio importante: battere in ritirata di fronte al Guardiano ci porterà a negare una parte di noi, a rifiutare il dono e a rimanere bloccati nella nostra evoluzione; riuscire a guardarlo negli occhi, accettare che sia parte di noi ed accoglierla ci permetterà di lavorare su quel lato della nostra personalità che racchiude l’energia del caos primordiale e dargli una forma, lavorarla, trasmutarla, e noi assieme a lei.
“Nel nostro inconscio niente è da rifiutare, ma semplicemente da risintonizzare e trasmutare.”
(Carl G. Jung)
Non lotteremo più contro il drago, non faremo finta che quell’Ombra non sia nostra, la accoglieremo e così facendo potremmo lavorare assieme a lei per giungere ad un livello di comprensione e consapevolezza maggiore: canalizzeremo la sua energia impetuosa che useremo come carburante nel portare il nostro tesoro allo scoperto. Sarà su quella terra lavorata in profondità, sanata e rinvigorita, che potremmo allora edificare una vita basata sul nostro essere autentico, su ciò che siamo davvero.
E se è l’Ombra a “radicare” la Luce, a renderla concreta, terrena, manifesta, operante in questa realtà, a cosa serve ignorarla, ignorare i nostri lati bui, le nostre ferite e tutte quelle emozioni che vengono taciute di disfunzionali e con basse vibrazioni se non a rallentare il nostro reale processo di fioritura?
L’Ombra può nutrire la Luce. Anzi, è forse questo il suo scopo primario! Le radici affondano nella terra oscura, le stelle nell’universo infinito. Non c’è nessuna lotta tra luce ed ombra se osservi la natura: loro collaborano per permettere la vita; e noi siamo ad immagine dell’universo, siamo fatti di luce ed ombra e forse, dico forse, potremmo smetterla di lottare contro una parte di noi ed accettarla così com’è, e smettere di giudicarci per essere semplicemente umani.
Perciò, se proviamo emozioni come tristezza, inquietudine, rabbia, va bene così. Possiamo accoglierle e ascoltarle, capire cosa si muove nella nostra interiorità e prendere un poco di familiarità con quel terreno fertile e pieno di potenzialità che ci rende degli esseri complessi, travagliati e meravigliosi allo stesso tempo: semplicemente e profondamente umani.
E più che di luce, credo che il mondo, ora come ora, abbia bisogno proprio di questo: di umanità.
Vuoi rimanere aggiornat@ ?
Iscriviti alla newsletter e riceverai la lista dei migliori articoli e delle news più discusse.